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Archive for the ‘food for thought’ Category

Il complottismo non ha un colore, ma forse ha una causa

Posted by M. on April 25, 2015

Post sul complottismo che mi tenevo in canna da un po’ di mesi.

Colgo l’occasione perché non molto fa è uscito un articolo su Scientific American (link) che ricorda tre dati a proposito delle tendenza a credere alle teorie del complotto.

1) “Surveys by Uscinski and Parent show that believers in conspiracies “cut across gender, age, race, income, political affiliation, educational level, and occupational status.” People on both the political left and right, for example, believe in conspiracies roughly equally, although each finds different cabals.

Come hanno confermato vari poll e studi prima di questo, il complottismo non è né di destra, né di sinistra.
Qui userò l’aneddotica: come chiunque capace di ragionare, anche a me capitò, appena iniziato a capire cosa fosse la politica, di imbattermi nel “pensiero” estremista di un colore e dell’altro, e di riconoscerlo in entrambi i casi come imbecille ad essere generosi. Ciò che non focalizzavo ancora bene era il fatto che entrambi utilizzassero della retorica complottista per portare avanti le proprie tesi – questo perché ho scoperto cosa effettivamente fossero i complottisti solamente una volta avuta l’ADSL e finito per sbaglio nel pozzo online delle paranoie in libertà di cui prima ignoravo l’esistenza.
Tuttavia, nel frequente caso in cui il grosso degli anni giovanili venga passato in ambienti saturi di litania anti-USA, anti-Israele e anti-“sistema”, ci si può facilmente convincere che ormai, in quest’epoca post-WWII e post-68, il complottismo abbia trovato casa per l’appunto nel pensiero sessantottino del “fight the system” e bla bla; tale è stata per un certo periodo anche la mia sensazione. Un confronto, anni dopo, con utenti americani, mi ha svelato che, ironicamente, nel Nuovo Continente il complottismo viene al contrario visto come “di destra”, a causa del loro peculiare assetto politico in cui la dx (che sia conservatrice o libertarian) non è mai dx sociale, ma sempre contraria alle politiche stataliste, e quindi è la dx quella ad essere scettica e, nei casi estremi, paranoica nei confronti del “sistema”. Ma anche la loro sx è mobile, e abbraccia con disinvoltura aperture complottiste nel momento in cui le fa più comodo (dal noto esempio dell’omicidio JFK a tutte le paranoie contro le corporation, non ultime quelle sulla Monsanto e su tutti gli OGM).
La prova empirica di quest’assenza di colore, nel nostro panorama nazionale, è stata data dall’entrata nell’arena politica del M5S; costruito su più basi sedimentate (il seme originario può essere individuato negli spettacoli grilleschi anni ’90), sfruttando un’onda lunga di sentimenti antisistema, non s’è fatto scrupoli ad accogliere e far leva a livelli diversi su complottismi d’ogni genere (1, 2, 3, 4), e, allo stesso tempo, ha pescato a strascico lungo tutto l’asse da dx a sx.
A distanza di tempo, appare evidente come le ideologie estremiste poggino le proprie basi su complottismi più o meno celati: per essere estremisti, costoro necessitano di prendere una posizione manichea secondo cui “l’altro” è il nemico assoluto che li opprime, mentre ammettere proprie colpe e mancanze finirebbe inevitabilmente per trasformare il bianco/nero in una scala di grigi, e dunque ricadere verso posizioni centriste.
Più o meno celati, perché spesso il ragionamento complottista si annida dietro talmente tanti strati di retorica che può diventare difficile riconoscerlo come tale. Un caso che non può più essere celato, perché la Storia ce l’ha consegnato già analizzato e sviscerato, è quello del filone antisemita che culminò nel periodo nefasto cui resterà indissolubilmente legato. Un caso molto più insidioso, perché nascosto dietro problemi sociali realistici e al ricatto morale del politicamente corretto, è quello, tipicamente di sinistra, del dividere la popolazione in gruppi identitari a cui rivolgersi politicamente e ai quali vendere il concetto (complottista) secondo cui ogni loro problema è causa di un altro gruppo identitario, stavolta di maggioranza, che li ha sempre oppressi – ignorando platealmente il fatto storico che, lungo il corso del tempo, anche in quella stessa maggioranza il potere è sempre rimasto nelle mani di una minuscola élite.
E infatti,

2) “Group identity is also a factor. African-Americans are more likely to believe that the CIA planted crack cocaine in inner-city neighborhoods. White Americans are more likely to believe that the government is conspiring to tax the rich to support welfare queens and turn the country into a socialist utopia.

3) Infine, “42 percent of those without a high school diploma are high in conspiratorial predispositions, compared with 23 percent with postgraduate degrees.
– Come mostrano i dati, la variabile dell’educazione da sola non basta a spiegare la tendenza al complottismo: nonostante si rilevi una riduzione, quasi un quarto di chi possiede titoli superiori alla laurea triennale ne risulta ancora non immune.
Potrebbe quindi essere spiegata col benessere economico? Pare di no (vedi più sotto).
Io ho una teoria su quale sia il fattore principale, che ho dedotto da una ricerca sul web in cui ho confrontato varie fonti.

Click to access PPP_Release_National_ConspiracyTheories_040213.pdf

La prima pagina riassume un po’ tutto il discorso di poc’anzi. C’è una distribuzione equa di chi crede ai complotti, che varia grandemente a seconda di come viene formulata la domanda (non essendoci una definizione universale di cosa sia esattamente un complotto, la formulazione della domanda può contenere questo o quell’altro bias e variare di molto il risultato), ma anche del tipo di complotto (NWO e global warming schiaccianti tra i repubblicani, e invece pari sulla guerra in Iraq).

911worldopinionpoll_Sep2008
World poll sul 9/11, condotto nel 2008. Nigeria e Kenya figurano meno complottiste dell’Italia.

A cui va aggiunto http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/j.1467-9760.2008.00325.x/abstract
Si legge solo l’inizio, ma riporta che nel 2006 il 22% dei canadesi credeva al 9/11 come complotto attuato dagli stessi americani. Più della media mondiale, e di varie nazioni nettamente più povere, di due anni dopo.

Click to access ZogbyPoll2007.pdf

Poll sul 9/11, la correlazione dell’income non è evidente. Si abbassa e poi si alza quando si passa alla fascia di reddito più alta. Quindi nemmeno la variabile del reddito basta a spiegare la tendenza al complottismo.

Click to access -public-opinion-on-conspiracy-theories_181649218739.pdf

Vari poll condotti nel tempo. Pochissimi considerano la variabile income, ma, dove c’è, mostra variazioni di pochi punti. La variabile dell’istruzione ne mostra di più, ma ci si aspetterebbe maggiori variazioni, soprattutto tra high school e college. Il dato ricorrente è di nuovo che, pare, siano equamente distribuiti demograficamente e politicamente, e che varino a seconda del tipo di complotto. Ad esempio, il complotto sull’assassinio di King vince nettamente tra le minoranze etniche e i democratici.
Nelle loro parole:
We don’t find compelling evidence from the data in this document that particular demographic groups are susceptible to a belief in conspiracy theories. It depends on the theory. Middle-aged Americans are more likely to believe in the JFK assassination conspiracy than older or younger ones. Young people and Democrats are most likely to subscribe to conspiracy theories about 9/11. Women are more likely to believe foul play was involved in Princess Diana’s death. While the demographic data presented here are by no means exhaustive, we’re hesitant to endorse what much of the literature concludes – that the young and less educated are more prone to conspiratorial instincts.
– Quindi sia il loro risultato, sia quello più diffuso, mostrano come correlazioni principali delle altre rispetto alla povertà.

http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/j.2044-8309.2010.02018.x/abstract
Studio che mostra come ci sia una correlazione tra un tipo di personalità machiavellica e la credenza ai complotti. Chi crede ai complotti, è probabile ne farebbe uno.

Click to access Issue-88.pdf

Compendio di vari studi. Alle pp. 8-9 elenca la serie di correlazioni finora emerse da essi: bias cognitivi, alti livelli di rifiuto delle norme sociali, autoritarismo, sensazione di impotenza, basso self-esteem, bassa fiducia, cattivo carattere, alti livelli di cinismo politico. Conclude sostenendo ci siano vari meccanismi sia cognitivi che sociali in gioco, e che, per ora, oltre alle correlazioni trovate, gli studi siano ad uno stadio troppo precoce per avventurarsi nell’individuare quali siano invece le cause.
Alle pp. 23-24, parlando della possibile ma in realtà sfuggente correlazione tra complottismo e autoritarismo, secondo me c’è il passaggio che riassume tutto:

Several studies by Monika Grzesiak-Feldman have shown that anti-Semitic conspiracy theories in Poland are more likely to be held by authoritarians. Likewise, a study in the 1990s by Yelland and Stone found that authoritarians are more amenable to persuasion that the Holocaust was a hoax, orchestrated by a massive Jewish conspiracy. Viren Swami, a psychologist at the University of Westminster, has demonstrated that anti-Semitic conspiracy theories are associated with authoritarianism in a Malaysian sample as well. But there’s some evidence pointing the other way as well. In a separate study, Swami and his colleagues at the University of Westminster showed that 9/11 conspiracy beliefs are associated with negative attitudes toward authority, and John W. McHoskey found that people high in authoritarianism were more likely to be anti-conspiracist when it comes to the JFK assassination. So what’s going on here? It looks like the content of the theories is what matters. The research on the psychology of authoritarianism has long shown that authoritarians tend to derogate and scapegoat minorities, which seems to be what’s going on in a lot of these anti-Semitic cases: a minority is being blamed by the majority for the ills of society. Swami’s Malaysian study actually proposes that the anti-Semitism shown by the Malaysian respondents might be a proxy for anti-Chinese racist attitudes: there are very few Jews in Malaysia, so Malaysian authoritarians might displace their ethnic aggression from a relatively powerful and socially accepted minority group (Chinese) onto one that is almost non-existent in their society and so can be scapegoated without consequence (Jews). In contrast, a lot of modern conspiracy theories have a very populist and antigovernment tone. They blame authorities for the evils of society, not minorities – the American government blew up the Twin Towers, MI6 killed Princess Diana, and so on. So it makes sense that authoritarians would be less likely to believe that their governments are conspiring against them and anti-authoritarians would find this idea more appealing. There’s no uniform association between authoritarianism and conspiracy belief – it seems to depend on the specifics of the theory in question.

Scapegoat, ovvero scaricabarile. De-responsabilizzare psicologicamente se stessi caricando qualsiasi colpa sulle spalle di un capro espiatorio.
Riassunto del tutto: la correlazione tra complottismo e povertà non è abbastanza consistente da poter essere indicata come la principale, sia per ciò che emerge dai risultati esistenti, sia perché mancano ancora studi in materia, e, allo stesso tempo, non c’è una correlazione solida quanto ci si aspetterebbe con l’istruzione.
C’è invece una correlazione ormai provata tra complottismo e varie attitudini psicologiche individuali, tra le quali emergono soprattutto alienazione, “scapegoatism” aka scaricabarile, senso di impotenza, sfiducia nel mainstream (e quindi anche nelle istituzioni) di qualsiasi tipo.
Ipotesi mia finale: da questo si può ipotizzare che un paese come l’Italia, nel quale indoli come scaricabarile e sfiducia sono diffuse, e il declino (che la nostra pessima classe giornalistica si ostina ancora a chiamare “crisi”, ma questo è un altro discorso) è manifesto ovunque da troppi anni, produca più complottismo di, ad esempio, un paese con meno benessere ma avviato verso lo sviluppo, in cui i cittadini hanno iniziato ad avere fiducia nelle istituzioni perché stanno funzionando.
Il dubbio che resta è di essere nel pieno di un circolo vizioso: le persone che tendono ad avere tali qualità negative, e dunque credere ai complotti, magari lo fanno solo per via di una proiezione sul prossimo di ciò che (consciamente o meno) “sanno” di loro stesse, ma ciò significa anche che, se tali persone ne avranno la possibilità, costruiranno o popoleranno istituzioni disfunzionali che avranno l’effetto di propagare una sfiducia verso le stesse sul resto della popolazione, e dunque a loro volta alimentare i sentimenti che danno vita ai complottismi.

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Distopie generazionali

Posted by M. on November 6, 2014

Non si contano le opere che trattano di distopie. Ciascuna di tali opere, tuttavia, non è riuscita ad anticipare correttamente i reali svolgimenti futuri, e ciò perché le suggestioni distopiche sono strettamente connesse alla situazione presente e passata in cui vengono immaginate, più che a visioni del futuro.
La chiave per capire la nascita delle distopie non sta nell’immaginarsi un futuro che progressivamente diventa sempre più minaccioso perché tale è la direzione naturale degli eventi, ma nel realizzare come sia una cristallizzazione del passato e/o del presente, resistente ai cambiamenti naturali del contesto, a costruire anno dopo anno quello che sarà un futuro nero.
Nell’immaginare le distopie, le fiction partono da un punto nella storia in cui il sistema distopico è già affermato, e una generazione intera si trova nata in un mondo già precipitato; ciò perché ogni distopia nasce come utopia. Il futuro distopico non arriva per progressione naturale della storia: ogni generazione cercherà di perseguire la propria felicità, perciò non finirà mai per mettere in piedi un sistema contrario agli interessi della propria maggioranza.

La distopia si crea perché un dato gruppo, in un dato periodo, vuole creare un’utopia per se stesso. La conseguenza è che il monopolio che così va a crearsi scombina gli equilibri e mantiene i privilegi da una parte della bilancia nonostante tempi e contesti cambino, e dunque chi nasce successivamente a tale cristallizzazione subisce un destino via via peggiore. Una volta che un modello mentale utopistico prende il potere, man mano che i tempi e le circostanze cambieranno esso si rivelerà anno dopo anno sempre più obsoleto: se, durante tale periodo, reagirà stringendosi e solidificandosi nel proprio monopolio invece di adattarsi o cedere, il futuro sarà inevitabilmente quello di una distopia, che finirà per crollare rovinosamente dopo essersi divorata le 2-3-4 generazioni successive.

Non c’è quindi da stupirsi se la generazione più utopistica del dopoguerra, quella dei baby boomers, sia stata anche quella ad aver creato il più sbilanciato sistema di privilegi per se stessa, cristallizzando il proprio presente a spese delle generazioni future, che si trovano a doverne pagare gli errori (tra cui i debiti da essi contratti). Ciò è accaduto in tutto il mondo occidentale, ma in alcuni paesi, come il nostro, per mancanza di un sistema di regole chiaro, efficiente, capace di assorbire ed adattarsi automaticamente ai cambiamenti, e allo stesso tempo con indicatori demografici via via peggiorati, le conseguenze sono state disastrose. Il fatto che si sia creata la famosa “casta” parlamentare è solo la punta dell’iceberg: fuori dalle luci dei riflettori ci sono decine di altre caste create dalla stessa generazione.
Voler dialogare con quella generazione per ridisegnare il sistema è inutile, dal momento che, dopo tutto l’investimento messo nella propria causa, ora essa non è capace di capire lo sbilanciamento che ha creato per chi è venuto dopo. Guardare la realtà dei fatti e realizzare come stiano effettivamente le cose significherebbe per loro dover ripudiare almeno parzialmente l’utopia che li ha guidati, e quindi l’idea di aver fatto bene, di aver combattuto cause giuste e di aver messo in piedi un sistema migliore del precedente. Peccato che su tali idee sia fondata la loro identità generazionale, quindi non ci si può aspettare alcuna comprensione.

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Fuffa d’arcangelo

Posted by M. on October 10, 2013

9 ottobre, commenti al rapporto OCSE http://skills.oecd.org/OECD_Skills_Outlook_2013.pdf a confronto.

Boeri su Repubblica: “Questo permette anche di misurare lo spreco di capitale umano. Da noi è macroscopico: con un tasso di disoccupazione giovanile al quaranta per cento, i punteggi dei giovani sono sistematicamente più alti di quelli del resto della popolazione e spesso in modo consistente, cosa peraltro non vera in tutti i paesi (ad esempio non è così in Norvegia, Danimarca, Regno Unito, Giappone e Stati Uniti). […] I disoccupati e le persone inattive, a differenza che in altri paesi, non sono meno competenti di chi lavora. Le donne disoccupate hanno addirittura punteggi migliori sia nelle competenze matematiche che in quelle linguistiche non solo dei disoccupati di sesso maschile, ma anche di chi ha un lavoro e ha più di 55 anni. ”

Uriel: “Finalmente l’ OCSE ha detto cio’ che sostenevo da qualche tempo, ovvero che la stragrande maggioranza dei disoccupati italiani sono semplicemente inoccupabili, e per quanto si sbattano di fare, anche all’estero, non riusciranno mai a trovare un lavoro nel 2013.”

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Global Democracy Ranking, 2012

Posted by M. on July 27, 2013

http://www.democracyranking.org/en/ranking.htm

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Librerie personali e web: una considerazione rapida

Posted by M. on July 15, 2013

Questa settimana la mia “libreria” (libri fisici, ebooks e prestiti bibliotecari, a occhio in rapporto 40/30/30) ha superato i 1000 titoli.
Le statistiche sono: 300 ancora da leggere, 300 consultati, 40 abbandonati (rivenduti o cestinati), i restanti in lettura o completati.
I numeri erano circa la metà solamente 4 anni fa, quando ho iniziato a contarli.
Se non fosse per Abebooks, Amazon, cataloghi online, e in casi rari eBay, solo negli ultimi 12 mesi avrei speso, a stima, più di 1000€ in libri invece dei circa 300€ effettivamente spesi (acquistando da Italia, Germania, UK e USA, con prezzo compreso di spedizione quasi sempre minore all’estero – anche nel caso di edizioni italiane, guarda un po’). E avrei conosciuto, letto e comprato 10 volte meno.
Ergo, chiunque parli male di internet e la tennologgìa d’oggi che fa chiudere le piccole librerie tradizionali di una volta e ci disumanizza e causa la grisidellìbbro che non si compra più eccetera eccetera sa già la risposta.

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Uno per tutti?

Posted by M. on July 2, 2013

Ci arrovelliamo tanto, ma forse il problema dell’Italia è tutto qui:

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“How metal nerds choose what bands to like: a scientific model”

Posted by M. on July 12, 2011

http://www.metalsucks.net/2011/07/11/how-metal-nerds-choose-what-bands-to-like-a-scientific-model/

Pure gold.

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Sans noblesse

Posted by M. on December 16, 2010

<< Correct me if I’m wrong but it seems like a relatively recent development in US culture – or perhaps it’s the culture of the Facebook nation? – to wear the label of “snob” lightly now.  If one makes distinctions of quality between things in a set, one is invited to smirkingly excuse one’s snobbery.  If you love fine wines, you say are a “wine snob.”  If you like art films or critically acclaimed movies, you are a “film snob.”  I saw a commercial a while back in which a guy who likes brand names identifies himself as a “clothes snob.”  You can be a pancake snob, bottled water snob, pho snob, design snob, or a music snob.  The appellation tends to address the products one consumes.  That is, you can be a snob about the sorts of things you can also “like” on Facebook.  This common meme is about tastes more than a concrete sense of class position, income, etc. A snob is not anymore an uptight, haughty, profit-seeking yuppy, but that yuppy can be a snob if he prefers to drink only the finest wines, in Reidel glasses.  It is as though the distinguishing feature of the snob is no longer that he feels that those who diverge from his tastes and practices are inferior as persons, or that he pretends refinement & connoisseurship to gain in status, but merely that he seeks and trusts in his ability to make evaluative distinctions. >>

(Zach Campbell)

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